In questa quarta analisi della ricerca “Voci dalla quarantena. La vita degli italiani durante il Coronavirus” ci occupiamo di smart working e tecnologia. Le prime tre analisi si trovano qui.
Ne sono tutti certi: questa pandemia cambierà il volto a molte cose. E al centro di questi cambiamenti c’è senza dubbio il tema del lavoro, con tutte le sue declinazioni: dall’incognita sugli impatti economici e occupazionali, alla spinta verso la rivoluzione del lavoro agile, fino ad arrivare al tema della conciliazione dei tempi, ovvero un modo polite per parlare della condizione femminile.
Tra timori e opportunità, questa quarantena pare scoperchiare tegami da tempo bollenti, costringendoci ad alcune riflessioni ma, soprattutto, a fare delle scelte. E in tema di lavoro, qualcosa, effettivamente, sembra muoversi, a cominciare da una spinta verso nuove modalità di svolgimento delle attività.
L’isolamento legato alla quarantena, laddove ce n’erano le condizioni, sembra aver agito da acceleratore verso nuove forme di lavoro: nel periodo centrale del lockdown il 41,8% della popolazione intervistata dichiara infatti aver proseguito con le attività attraverso la modalità dello smart working. Per un 20,1% invece, questo periodo ha rappresentato una vera e propria pausa, in cui con ogni probabilità si annidano gli aspetti più dolorosi e fragili di questa vicenda, legati alle casse integrazioni, alle ferie forzate, ai lavori stagionali e alle tante partite iva che in un mercato che si stagna, non potevano che arrestarsi.
Si limita ad un più esiguo 14,2% la quota di quanti, anche in quarantena, hanno dovuto proseguire con le attività recandosi regolarmente nei luoghi di lavoro.
Le tre Italie a lavoro durante il lockdown
All’interno di questo quadro generale, una più attenta analisi pone tuttavia l’accento su significative differenze, che raccontano i diversi volti di una stessa Italia, divisa ancora tra questioni di genere e latitudini.
E iniziando proprio dalle latitudini, in tema di organizzazione lavorativa durante la pandemia, a palesarsi sembrano essere tre diverse Italie: quella più “agile” dei comparti settentrionali, spinti verso un uso più diffuso dello smart working (Nord Ovest: 49%; Nord Est: 45,7%); quella più “burocratica” del Centro, in cui continua a recarsi sul posto di lavoro il 22,2% dei lavoratori; quella più precaria del Sud e delle Isole, in cui ad essersi fermato, complice il tracollo del turismo, è il 24,7% della popolazione. Sono dati, questi, che puntano -più o meno indirettamente- i riflettori sulle diverse urgenze del Paese e sulla necessità di identificare piani e azioni mirati, in grado di fare leva su ciascuna potenzialità, superando le specifiche contingenze.
Il problema è che tutto quello che viene fatto è stato pensato prima. Utilizzerei questo momento per capire come affrontare il dopo, ma da qui a due anni, almeno due anni.
Innanzitutto, durante la quarantena, lei sta proseguendo la sua attività lavorativa o è fermo? N. Rispondenti: 1195
Quanto è smart, lo smart working? Qualcosa di genere
Se il tema del lavoro lungo il nostro amato Stivale è ancora “maschio” (passa rispettivamente dal 15,9% degli uomini al 28,8% delle donne la porzione di quanti dichiarano di non svolgere alcuna attività lavorativa), sembra proprio che lo sia anche lo smart working, non solo in termini di diffusione e pratica (lo svolge il 46,7% degli uomini, rispetto al 37,3% delle donne), ma anche – e soprattutto- in termini di apprezzamento: tra il 90% degli uomini che giudica questa esperienza con favore, raggiunge il 34,2% la porzione di quanti ne danno una valutazione molto positiva. Posizione, quest’ultima, che si dimezza tra la compagine femminile (17,9%), più propensa degli uomini a mostrare il proprio disappunto: raggiunge il 23,6% la quota di donne in smart working che valutano negativamente questa esperienza.
All’interno di un favore generale che, comunque, riguarda oltre 8 italiani su 10, dunque, il dubbio c’è ed è acceso: siamo sicuri che si tratti della stessa esperienza? Siamo sicuri che quello di tante donne, durante la quarantena, si possa effettivamente chiamare smart working?
I dati sembrano propendere per il no e rimandare l’attenzione al tema, tutto femminile, della conciliazione dei tempi lavorativi con quelli famigliari. Per le donne, dunque, questo smart working, tanto smart non è, portandosi dietro buona parte dell’organizzazione famigliare, primi tra tutti la cura dei figli e le incombenze domestiche. Tra una didattica a distanza e la famiglia da mandare avanti, per una buona parte della compagine femminile il lavoro da casa rappresenta in questa fase una fatica fatta di molte interruzioni e carichi, in cui l’unico modo per salvarsi è essere multi-tasking.
Il rischio in questa pandemia, dunque, c’è ed è quello di fare come i gamberi, costringendo una parte della popolazione femminile a fare un passo indietro e a scegliere tra la famiglia ed il lavoro.
D’altronde, davanti all’impossibilità di un aiuto esterno, nelle prossime settimane per molti sarà obbligatorio riorganizzare gli assetti famigliari e -complice il vecchio tema delle differenze retributive- propendere verso un più fisiologico restare a casa da parte delle madri.
E, in generale, come giudica l’esperienza di lavoro in smart working? Rispondenti: quanti dichiarano di proseguire a lavoro attraverso lo smart working (N = 500)
Tuttavia, una considerazione va fatta: che piaccia o meno e al di là della difficoltà provata, questa forma di lavoro in questo momento, rappresenta anche una risorsa preziosa, un’alternativa necessaria e in ogni caso da preferire a quella di recarsi ancora in ufficio. Lo sanno bene i genitori di bambini in età compresa tra i 6 e i 13 anni, presi dall’urgenza di seguirli, accudirli e accompagnarli in questo lungo periodo di assenza delle istituzioni scolastiche: non solo ne hanno fatto un maggiore uso, ma ne mettono più fortemente in luce gli aspetti di positività.
L’approfondimento (dalle interviste)
Quello che oggi chiamiamo smart working nella maggior parte dei casi è semplicemente lavorare da casa, è bene qui precisarlo. Smart working, per un’azienda, è innanzitutto un tema organizzativo: un processo all’interno del quale ruoli e responsabilità sono pensati, in origine, per poter svolgere i propri compiti non in presenza. Passare a questa cultura con la repentinità a cui la pandemia ha costretto le aziende, ha messo in luce una serie di limiti: scarsa fiducia e scarsa delega, principalmente, che incidono sulla responsabilizzazione delle persone.
Non ero per niente convinto, anzi pensavo che il fancazzismo un po’ avrebbe preso il sopravvento
Questo è risultato molto chiaro a chi, durante il lockdown, è passato dal lavoro in ufficio al lavoro da casa. La conversione è avvenuta, appunto, in tempi ridottissimi, ma non sempre è stata indolore, avendo dovuto superare una fase in cui, appunto, l’organizzazione stessa si è dovuta ripensare – da casa, anch’essa. In questi casi, dopo un momento di disorientamento spesso caratterizzato dalla sgradevole sensazione che “lo smart working è una fregatura”, si è riusciti poi gradualmente a raggiungere un equilibrio. Solo a questo punto il problema è diventato di tool, strumenti, per superare il limite della distanza fisica.
Non mi strappo i capelli perché non posso andare in ufficio
Giunti a questo stadio – lavorare da casa si può, abbiamo gli strumenti per farlo, l’organizzazione ci sostiene – si introducono le variabili: chi lavorava in ufficio e ora lavora da casa; chi era già abituato a lavorare da casa (i professionisti, tipicamente); chi era abituato a lavorare da casa e trascorre il lockdown da solo; chi già lavorava da casa e trascorre il lockdown in famiglia; le donne che lavorano da casa e che vivono la quarantena con dei figli.
Per chi lavorava in ufficio e ora lavora da casa, superato il primo periodo di sbandamento, la nuova modalità rivela i suoi lati positivi. Si possono prendere le cose con più calma, concedersi tempi più rilassati, ma anche scoprire che le persone sono molto più responsabili di come si immaginavano. Un esempio per tutti: le riunioni, sempre troppe e troppo lunghe in ufficio, iniziano per la prima volta puntualmente e finiscono quando devono. Per queste persone è abbastanza scontato che questa modalità di lavoro è da mantenere.
Più semplice il cambiamento per chi vive il lockdown da solo, un po’ più laborioso per chi sta in famiglia, dove intervengono fattori logistici – gli spazi da condividere, la presenza di altre persone in generale – con cui fare i conti. I professionisti, già abituati al lavoro da casa, sembrano soffrire di più del sovraffollamento. Chi invece deve proprio fare i salti mortali per far fronte a questa situazione sono le mamme di figli piccoli, che vivono giornate lavorative interrotte dalle esigenze di questi ultimi. Sono loro, le mamme, ad attivare strategie di emergenza: si può lavorare bene al mattino molto presto (prima che inizino le lezioni online per le quali i figli in età scolare vanno seguiti o, semplicemente, prima che i bambini ancora più piccoli reclamino una presenza genitoriale) o la sera molto tardi, quando i compiti sono finiti e/o i bambini a dormire. Una situazione che richiede sforzi di concentrazione che, in un periodo già difficile come questo, diventa veramente difficile.
Le mie buone pratiche lavorative in questo momento sono molto contaminate dal rumore, dalle incursioni, dal chi arriva prima ad accaparrarsi la scrivania più bella, il tavolo più esposto alla luce, quello con più prese per avere la stampante e quant’altro
Matura, però, anche una diversa percezione di sé rispetto al lavoro, forse proprio in virtù delle ottimizzazioni che lo smart working consente. La dedizione rimane, ma si è meno disponibili a negoziare il proprio tempo, che in questo periodo appare come una risorsa più abbondante ma anche più valorizzata: è come dire che, ora che il tempo c’è, si sono elaborate strategie per usarlo che hanno svelato lo spreco di cui esso era vittima nella vita precedente.
Vorrei riuscire a mettere uno stop al lavoro senza fine, dare ma non esagerare. Non è sempre tutto gratis, soprattutto il mio tempo
Il lockdown e gli effetti positivi sul digital divide
Se questa quarantena forzata pone sullo sfondo vecchi strascichi da risolvere, qualcosa di buono l’ha portata e riguarda una nuova spinta verso i temi dell’innovazione.
Costretti tra le mura domestiche a soccombere a distanze, solitudine e assenza di fisicità, gli italiani fanno ricorso alla tecnologia, come unica risorsa che in questo frangente è in grado di unire e mettere in collegamento le persone da un capo all’altro del mondo.
Il giudizio è unanime: per il 95,7% degli intervistati nell’attuale situazione la tecnologia svolge un ruolo di centralità. Tra questi, raggiunge il 64,9% la quota di quanti le attribuiscono una funzione fondamentale.
Lo è per esempio per i giovani (77%), presi dalla necessità di seguire le lezioni a distanza e recuperare una agognata parvenza di socialità. Lo è per le famiglie, prese dall’urgenza di dividersi banda e wi-fi e mandare avanti i propri impegni.
Infine, come facilmente desumibile, lo è più di tutti per chi sta continuando a lavorare da casa (79,8%), che, costretto dalle necessità lavorative, si tuffa in nuove esperienze digitali accorciando il proprio gap: rispetto ad un già rilevante 28,1% complessivo, raggiunge il 36,3%, la percentuale di smart worker che affermano di aver visto migliorate, in questo periodo, le proprie competenze tecnologiche e digitali.
Visto in questa prospettiva, il lockdown sembra dunque fare da acceleratore, costituendo una potente leva in grado di ridurre significativamente, in poche settimane, il digital divide del Paese.
Chi non era digitale si è trovato di fronte a un bivio: o digitalizzarsi o morire.
E in questo periodo lei direbbe che le sue competenze digitali e tecnologiche sono…? N. Rispondenti: 1195
E se è indubbio che gli effetti e le condizioni di questa pandemia abbiano cambiato le priorità degli italiani e fatto sì da far attribuire un ruolo di maggiore centralità alla tecnologia (il 45,2% degli intervistati afferma che dall’inizio della quarantena la tecnologia giochi oggi un ruolo più importante), è altrettanto doveroso lasciare acceso un faro verso quelle categorie sociali che nessuna ricerca demoscopica riuscirà mai a raggiungere adeguatamente. Ed è proprio all’interno di quelle categorie, non ascoltate e non raggiunte, che presumibilmente permangono le maggiori difficoltà, acuendo le questioni legate ai temi del diverso accesso e del diverso diritto alle risorse. Temi che si fanno centrali se intrecciati a quelli del diritto all’istruzione, e su cui più che di una pandemia, c’è bisogno di un profondo piano di interventi. Come dire: piove sempre sul bagnato.
Ottimizzare fin dai primi istanti, cogliere le opportunità, fare della dello stallo un’opportunità di crescita sotto tutti i punti di vista